LA POLITICA NON FA PIù LA STORIA MA LE STORIES: LA FRONTIERA DEL FATTO TEMPO NEI NOSTRI “STATI NERVOSI”

Tutto cambia, e nulla cambia (in un certo senso) nella comunicazione politica. Specialmente in quel laboratorio che risponde al nome di Italia, fucina di innovazioni e di importazioni – adattamenti di primo piano nel campo – oltre a rappresentare, come noto, una fabbrica a ciclo continuo di populismi. Ovvero il Paese del campaigning permanente implementato senza sosta in virtù della sequenza praticamente senza fine di scadenze elettorali, quasi sempre presentate nell’agenda mediatica – va rimarcato… – come se si trattasse di altrettanti, decisivi e imprescindibili “Ohio all’italiana”, od “ordalie” dalle quali dipende il destino a brevissimo termine delle forze politiche. E la ragione è il combinato disposto di sceneggiatura mediale, per l’appunto (il celebre modello horse race del giornalismo politico, alla ricerca di una gara che sia avvincente e al photo-finish, nella misura del possibile, per i propri lettori-utenti-navigatori), e di un mondo politico e un circuito di “addetti ai lavori” che non controllano – per molteplici motivazioni – il riflesso condizionato verso una lettura su scala nazionale di ogni votazione che si svolga lungo lo Stivale (da cui derivano nuovi equilibri fra i partiti). Poche nazioni, per fare un esempio, hanno sperimentato campagne balneari – lampo (come quella, “cotta e mangiata” che ha preceduto a razzo le ultime politiche, quelle del 25 settembre 2022), a riprova dell’inesauribile creatività elettorale italiana.

Che ha vissuto una sola eccezione a seguito di quelli che i sociologi etichetterebbero come i «fatti sociali» del lockdown e delle misure di contrasto del Covid-19 (a loro volta all’origine di quella che Giovanni Boccia Artieri ha chiamato la pandemic politics) da cui, tra il 2019 e il 2021, è stata determinata una sorta di pacificazione e tregua temporanea del conflitto (salvo l’irruzione dell’issue antivaccinista e della galassia no vax), con un congelamento della propensione del mondo politico nazionale per la campagna elettorale permanente. La War room in servizio permanente effettivo, insomma – e, al riguardo, si segnala il libro omonimo di Luigi Di Gregorio, fresco di stampa per i tipi di Rubbettino, una guida interessante nei meandri e nel labirinto del permanent campaigning. L’«elettoralismo» è, per certi versi, una malattia infantile del partitismo italiano che, in verità, dopo lo schianto della Repubblica dei partiti sotto le sferzate di Tangentopoli, si è trasformato in maniera sempre più irresistibile in un arcipelago di partiti personali e in una democrazia del leader (come ha dettagliatamente raccontato Mauro Calise).

Sino, arrivando agli ultimi anni, a farsi «iperpersonalizzazione» della politica e intermittenza della leadership, quest’ultima particolarmente palese ed eclatante in occasione dell’appuntamento con le elezioni europee, a cui ci stiamo avvicinando a grandi passi in avanti (o balzi all’indietro, a seconda della lente interpretativa) anche adesso. Quell’elettoralismo, giustappunto, che ha prepotentemente iscritto in seno al discorso pubblico la formula retorica dei «governi non eletti», con la relativa (assai popolare) esecrazione della tecnocrazia al potere, uno dei frame comunicativi più utilizzati all’interno della narrativa neopopulista (e non esclusivamente in Italia, dove i governi tecnici andrebbero più appropriatamente considerati come una risorsa e, in ogni caso, un effetto necessitato dei deficit e delle inadempienze della classe dirigente partitica). Del resto, vari leader – anche a sinistra – ai tecnici preferiscono gli influencer, e certi loro atti comunicativi, non per caso, li ricordano da vicino.

Nondimeno, a proposito di tendenze, l’offuscamento di taluni influencer per ragioni giudiziarie, o l’affievolirsi della loro fase engagée (che, in genere, ha fondamenti prettamente di self-marketing e posizionamento personale) li sta allontanando dall’inopinato ruolo di opinion-maker della vita civico-politica in cui erano entrati negli scorsi anni a gamba tesa. Mentre non accenna a diminuire – anzi… – la velocità della comunicazione politica divenuta (per l’appunto) istantanea e immediata, anche grazie all’analisi dei sentiment, al microtargeting e all’elaborazione dei (più o meno) big data che, seppur non con la pervasività e capillarità delle agenzie di spin doctoring e political marketing anglosassoni, si sono ampiamente fatte largo anche in Italia. E la politica algoritmica, difatti, è una frontiera avanzata da tenere attentamente d’occhio (come documenta il lavoro della Rivista di Digital Politics pubblicata da Il Mulino). Nei sistemi liberaldemocratici – a partire proprio da quelli più problematici (e postmodernizzati) come il nostro – il «fattore tempo», con l’invocazione di risposte accelerate e semplificate a questioni complesse, identifica un elemento di assoluto rilievo per gli attori politici. E lo sarà sempre più irreversibilmente nei nostri «Stati nervosi» (come li ha definiti il sociologo William Davies) sprofondati nella policrisi e in emergenza (e, dunque, anche campagna elettorale) permanente.

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